
Questo post “sostituisce” il classico articolo del weekend visto che ci troviamo nella settimana pasquale e quindi salterà. Ne approfitto per farvi gli auguri di Buona Pasqua!
Il post che segue è un po’ diverso dal solito e prendo spunto da un commento di un lettore (che ringrazio) riguardo il mio ultimo articolo che, seppur di sfuggita, accennava a quale dovesse essere, a mio avviso, la postura internazionale dell’Italia e quindi nei confronti della Cina.
Ci tengo a precisare che non c’è nessun intento polemico contro il commento stesso, così come la mia visione può tranquillamente non essere condivisa da alcuni: io lascerò i commenti aperti facendo affidamento sulla vostra educazione. Anticipo già che personalmente non risponderò ai commenti.
Visto che gli argomenti addotti vanno molto di moda (e lo andranno sempre di più) in maniera trasversale dagli ambienti ZTL ai suprematisti occidentali vale la pena dedicargli un post a sé.
Il commento recita testualmente:
Si,cadiamo in mano a un regime autoritario,che sta rapinando
Paesi emergenti,terreni e terre rare,rubare tecnologie,colpevole del
COVID, sovvenzioni statali alle sue imprese,vendendo in
dumping,ecc.,… può bastare?
Il puzzone si può convincere,e
poi passerà,i comunisti nn cambiano mai,Sic et sempre.
E poi nn
ha proprio tutti i torti:usa ci pagano sicurezza,e noi investiamo in
welfare che loro nn hanno…mi fermo qui
Prima di entrare nel merito, faccio un po’ di premesse:
- Non sono un sinologo
- Lungi da me difendere un paese o regime piuttosto che un altro
- Stringere accordi o alleanze in qualche campo non significa “cadere in mano a qualcuno”. Questo approccio è tipico di che dà per scontato che si debba inevitabilmente sottostare a qualche egemone.
Premesso ciò, iniziamo. L’articolo sarà un po’ lungo, perciò mettetevi comodi, ma soprattutto non conterrà nessuna strategia operativa.
Depredare i paesi emergenti
L’accusa ricorrente alla Cina di rapinare paesi emergenti, quasi fosse un “neocolonialismo”, è un’arma retorica costruita a tavolino dalle élite occidentali per delegittimare un modello alternativo a quello atlantista. Paradossalmente tale accusa proviene da quei paesi che il colonialismo l’hanno praticato e lo continuano a praticare ed aggiungo con termini predatori non hanno conosciuto eguali.
Senza fare la storia, occupandoci solo della contemporaneità, mentre l’Occidente, strozzato dalla logica del debito e delle privatizzazioni selvagge, impone ricette neoliberiste attraverso il Fondo Monetario Internazionale, Pechino propone partnership infrastrutturali senza le catene del debito predatorio.
Prendiamo l’Africa: la Cina ha finanziato il 20% delle infrastrutture del continente dal 2000, con progetti come la ferrovia Mombasa-Nairobi o il porto di Doraleh in Gibuti, creando reti di trasporto e logistica che hanno ridotto la dipendenza dalle rotte coloniali . A differenza del colonialismo classico, basato sull’estrazione unidirezionale di risorse, Pechino inserisce i paesi emergenti in una catena del valore globale, favorendo l’industrializzazione locale. L’accordo con l’Indonesia per la raffinazione di nichel, essenziale per le batterie elettriche, ne è un esempio: non si esporta il minerale grezzo, ma si costruiscono competenze tecniche in loco .
I soliti comunisti? La Cina e il Capitalismo di Stato: Un Modello Antitetico all’Occidente
Mentre Wall Street e Bruxelles impongono deregolamentazione e austerità, la Cina adotta un capitalismo di Stato orientato al lungo periodo. I numeri parlano chiaro: nel 2023, gli investimenti diretti cinesi in America Latina hanno superato i 40 miliardi di dollari, concentrati in energia rinnovabile e tecnologia . In Messico, Pechino sostiene il “nearshoring”, ovvero il riposizionamento delle filiere produttive vicine agli USA, ma con contratti che preservano la sovranità industriale messicana.
Questo contrasta con l’approccio occidentale, Italia in primis, che negli anni ’90 ha svenduto interi settori strategici dei mercati emergenti attraverso privatizzazioni pilotate. La Cina, al contrario, non chiede la cessione di asset pubblici in cambio di prestiti. La Nuova Via della Seta (BRI) non è un “debt trap”, come sostiene la propaganda, ma un meccanismo di co-sviluppo: il 62% dei finanziamenti BRI sono in equity, non in debito .
Tecnologia e Sostenibilità: La Leva della Competitività Cinese
La Cina sta ridefinendo le regole del gioco tecnologico. Dominando il 70% della produzione globale di semiconduttori e terre rare, Pechino offre ai partner emergenti accesso a tecnologie pulite e infrastrutture digitali. In India, nonostante le tensioni geopolitiche, le joint venture cinesi nel solare hanno contribuito a triplicare la capacità energetica rinnovabile dal 2020 .
L’Occidente, invece, continua a trattare i paesi emergenti come serbatoi di manodopera a basso costo. La Cina, al contrario, esporta know-how: in Arabia Saudita, Huawei sta costruendo città intelligenti con reti 5G, mentre in Brasile, BYD produce autobus elettrici in joint venture con aziende locali .
Per questo, l’accusa di “dumping” rivolta alla Cina è il riflesso di un Occidente incapace di competere sul piano della produttività e dell’innovazione. Si grida allo scandalo quando Pechino vende ad esempio pannelli solari o acciaio a prezzi inferiori a quelli occidentali, ma si tace sul fatto che il costo del lavoro cinese, benché sicuramente ancora inferiore a quello dei paesi sviluppati, sta conoscendo una dinamica di rialzo tale da sostenere i consumi interni non confrontabile con altri paesi:

Per comprendere questo cambiamento, è fondamentale guardare alle condizioni economiche dei primi anni ’90. Nel 1993, lo stipendio medio in Italia era solo del 10% inferiore a quello degli Stati Uniti. Oggi, invece, è meno della metà. Questo drastico calo dei salari riflette una tendenza più ampia di disuguaglianza economica che si è aggravata nel tempo. Il paragone con la Cina è particolarmente significativo: all’inizio del suo boom economico, lo stipendio medio cinese era una minima frazione rispetto a quello statunitense.
Il vero dumping, semmai, è quello culturale: l’Occidente esporta da decenni modelli economici neoliberisti che distruggono industrie locali, come accaduto in Italia con la delocalizzazione in Est Europa e Asia. La Cina, al contrario, non impone privatizzazioni: collabora con i governi per sviluppare filiere integrate. In Etiopia, la Zhongshan Huajian ha creato un distretto calzaturiero che esporta in Europa, formando 3.500 operai locali . Questo non è dumping: è trasferimento tecnologico.
E se proprio si vuole analizzare la concorrenza sleale, ricordiamo che gli Stati Uniti sovvenzionano l’agricoltura con 20 miliardi di dollari l’anno, distruggendo i mercati africani con grano a prezzi artificialmente bassi . La Cina, invece, ha ridotto i sussidi alle esportazioni del 70% dal 2015, allineandosi alle regole WTO .
Guardando un po’ più lontano, penso che i dati parlino chiaro: entro il 2030, il contributo dei mercati emergenti (esclusa la Cina) al PIL globale salirà al 50%, trainato da India, Sudest asiatico e Africa . Pechino sta accelerando questa transizione, finanziando non solo strade e porti, ma anche l’integrazione finanziaria. L’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), con 106 membri, è oggi un’alternativa credibile alla Banca Mondiale .
L’ossessione occidentale per la “contenzione” della Cina nasce dalla paura di perdere il controllo sul sistema monetario e commerciale. Il petroyuan, ad esempio, mina il dollaro come valuta di riferimento per gli idrocarburi, offrendo ai paesi produttori maggiore autonomia .
Il ruolo del dollaro
In questo contesto, va anche ricordato il cosiddetto “vantaggio esorbitante del dollaro” (in inglese exorbitant privilege), un concetto coniato negli anni ’60 dall’allora ministro delle finanze francese Valéry Giscard d’Estaing. Indica il vantaggio strutturale di cui godono gli Stati Uniti grazie al fatto che il dollaro statunitense è la principale valuta di riserva e di scambio internazionale.
- Il mondo ha bisogno di dollari: poiché il dollaro è la moneta più usata negli scambi internazionali (es. commercio di petrolio, materie prime, investimenti, debito sovrano), banche centrali e governi di tutto il mondo accumulano dollari come riserva. Questo crea una domanda costante di dollari.
- Gli USA possono stampare la moneta che il mondo desidera: gli Stati Uniti, essendo l’emittente della valuta di riferimento globale, possono stampare dollari per acquistare beni, servizi e asset all’estero. In pratica, possono importare senza dover esportare in modo equivalente.
- Finanziare il proprio deficit: grazie alla posizione dominante del dollaro, gli USA possono mantenere un persistente disavanzo commerciale (bilancia commerciale negativa), ossia importare più di quanto esportano, senza subire le stesse pressioni valutarie di altri Paesi. Questo perché i dollari spesi per comprare beni esteri tornano negli USA sotto forma di investimenti (titoli di Stato, immobili, borse, ecc.).
Gli USA ci garantiscono la sicurezza, noi investiamo nel welfare
La retorica della “sicurezza americana” è la foglia di fico per nascondere un rapporto di sudditanza. Sì, gli USA spendono il 3,5% del PIL in difesa, ma non per altruismo: è un investimento per mantenere il controllo sull’Europa attraverso la NATO, strumento di egemonia atlantista . In cambio, l’Europa rinuncia alla sovranità strategica e si ritrova invischiata in guerre come quelle in Iraq o Libia, che hanno generato ondate migratorie destabilizzanti.
In particolare l’Italia è da 80 anni una specie di portaerei gratuita sul mediterraneo.
Il “welfare europeo” è un mito in decomposizione: la spesa sociale in Francia e Italia è ferma agli anni ’90, mentre le privatizzazioni hanno eroso servizi pubblici . L’Europa, intanto, compra F-35 a 80 milioni di dollari l’uno invece di finanziare ospedali.
Questo ci porta ancor più nell’attualità, data l’imminente visita di Giorgie dai capelli d’ora alla corte di Washington.
Dagli amici mi guardi Dio che dai nemici ci penso io
La retorica politica che circonda queste trasformazioni richiama spesso un senso di nazionalismo e fraintesa volontà di rinascita economica. Tuttavia, è essenziale analizzare le reali motivazioni di leader come Meloni, che sembrano più allineati agli interessi degli Stati Uniti che al benessere dei propri cittadini. Gli appelli alla deregolamentazione e allo smantellamento delle tutele lavorative, in nome della crescita economica, sollevano gravi preoccupazioni per il futuro della democrazia e della giustizia sociale in Europa.
Vedrete che i colloqui, bene che vada, si risolveranno in un nulla di fatto, mentre nel peggiore, oltre che l’aumento di acquisto di armi e gas ahimè ormai scontato, imporrà di applicare noi stessi dazi alla Cina.
L’obbiettivo finale è comunque riorganizzare la divisione del lavoro in termini globali tra USA e Cina e vedrete tra qualche anno le conseguenze.
Questo porterà a trasformare l’Italia in un centro manifatturiero a basso costo, simile alla Cina degli anni ’90, con gravi rischi per i diritti dei lavoratori, la sovranità economica e la governance democratica. In un momento in cui i leader politici si muovono in questo complesso scenario, è fondamentale che i cittadini restino vigili e si impegnino per un futuro che metta al primo posto la giustizia sociale e l’equità economica, invece della mera obbedienza agli interessi imperiali.
In generale, gli Stati Uniti hanno fatto grande affidamento sui propri alleati per sostenere la loro posizione contro la Cina. Tuttavia, molti di questi Paesi stanno iniziando a dare priorità ai propri interessi economici piuttosto che alla fedeltà verso Washington. Questo cambiamento rappresenta una sfida significativa per la politica estera americana, che fatica a mantenere la propria influenza in un panorama globale in rapida evoluzione.
Conclusione
La Cina non è un’entità angelicata, ma rappresenta una sfida sistemica al capitalismo finanziarizzato occidentale. I suoi errori esistono — dalla gestione del debito in Sri Lanka alle tensioni nel Mar Cinese Meridionale — ma è ipocrita ignorare che il “consenso di Washington” ha generato disuguaglianze ben più profonde.